Si fa presto a dire «vittime». Ma davvero è solo così che vogliamo vederle?
«Ecco dunque che arriviamo alle domande: nel Mediterraneo vanno salvati solo coloro che scappano o anche i soggetti attivi che desiderano una vita diversa, non necessariamente migliore?
Va salvato chi, in quanto vittima, e dunque subalterno alla nostra compassione, non snaturi né alteri la nostra scala valoriale, non la metta in discussione, oppure merita rispetto anche chi arriva proponendo un universo di valori che eventualmente non ci corrisponda e che talvolta fatichiamo ad accettare?
Questo interrogativo resterà senza risposta finché continueremo a ricordare le esperienze delle persone migranti senza tematizzarle, a parlare di loro solo quando sono sul punto di morire annegati, cioè sempre troppo tardi, senza aver mai domandato loro non solo come fosse la vita da cui arrivavano ma anche – forse soprattutto – quella che si aspettavano di trovare.
Senza aver chiesto alle persone migranti se volessero essere considerate vittime-eroi-del-nostro-tempo, o soggetti e corpi politici, portatori di istanze, contraddizioni, conflitti.»
La vittima è l’eroe del nostro tempo – Il Post
Caro Choam,
scusami anzitutto se mi rivolgo a te in questo modo, cioè dandoti del tu e presumendo una qualche forma di affetto reciproco.
In realtà non ci conosciamo affatto. Ti ho conosciuto per la prima volta oggi, ascoltando su YouTube il tuo intervento nel canale “Sapiens Sapiens: La Teodicea: Dio e il problema del male” .
Mi sei piaciuto molto, molto. Poi mi sono iscritto al tuo canale “LEternoAssente”. E ho trovato alcune informazioni aggiuntive su di te che hanno aumentato i motivi per stimarti di più e sentirti molto vicino a me.
Scusami quindi se parlerò un po’ di me. Sono nato nel 1948 da una famiglia numerosa e molto cattolica. La famiglia e le molto frequenti partecipazioni religiose mi hanno convinto, ancora giovanissimo, a entrare in convento per diventare sacerdote e missionario. Avevo esattamente 12 anni nel 1960 e sono rimasto in convento fino all’estate del 1970. L’uscita è stata molto più faticosa dell’entrata: andavo verso l’ignoto, senza più radici, senza amici, senza prospettive economiche, ma ero diventato ateo e avevo preso coscienza del mio essere omosessuale. Tralascio di annoiarti con le vicende della successiva ormai lunga vita. Per quanto abbia cercato di scrollarmi di dosso il forte imprinting religioso e i miei sensi di colpa verso i miei educatori (alcuni dei quali ho amato platonicamente e che solo recentemente mi sono reso conto che, anche se involontariamente, mi hanno manipolato profondamente), l’omofobia e la sessuofobia interiorizzate non mi hanno consentito di costruire delle relazioni stabili. E oggi sono solissimo e più o meno in attesa di finire.
Ciononostante, sono contento di quello che sono riuscito a capire durante il mio contorto percorso di vita e di come sono riuscito a cambiare, almeno un po’. E mi sono sentito gratificato intellettualmente dalla tua esposizione del tutto razionale e rigorosa in un’Italia ancora dominata direttamente o indirettamente dalle falsità del cattolicesimo (anche da parte di storici e intellettuali che si vendono come liberi e razionali). Poi, il sapere che vivi con un compagno mi ha rallegrato il cuore perché, lo ammetto, sono prevenuto e ogni giorno e in quasi tutte le occasioni mi sento obbligato a difendermi dall’eteronormatività imperante.
In conclusione, l’ho fatta lunga solo per esprimerti la mia gratitudine, la mia ammirazione e la mia vicinanza.
Michele